I miti ovidiani in Dante e le ragioni della loro attualità
Amare un'opera classica vuol dire amare la clessidra del tempo. Ovvero il passato e persino l'eternità. Un classico accresce, arricchisce lo spirito umano e parla a tutti in uno stile universale. Come sosteneva Italo Calvino, "un classico non smette mai di dire ciò che ha da dire". Ovidio è l'ultimo brillante poeta dell'età augustea a muoversi nel solco della tradizione. Già incalzano gli eventi
convulsi di una res publica che, per gradi, si trasforma in principato. A partire dall'esperienza privata, dalla soggettività dell'uomo, il pensiero dell'intellettuale si staglia su una poliedrica trasposizione nel mito. Dal mito antico Ovidio riesce a creare un collegamento fra comportamento umano ed impresa eroica, fra le vicende dei mortali e le gesta degli dei, instaurando quasi un'intenzionale complicità tra uomo e dio, che avvicina vite lontane e disgiunte, che accomuna destini difformi. La gloria divina non ha timore di accostarsi al turbinio umano: il vortice delle passioni non risparmia nessuno. Nel III canto del Paradiso Dante reitera l'errore di Narciso nel volgere gli occhi alla fonte, scambiando per visioni diafane le anime. Ovidio aveva narrato il mito struggente di una ninfa dotata di bellezza inafferrabile e voce altrettanto fuggevole, tuttavia respinta da Narciso. Troppi amori mancati, in quei pochi anni di prospera giovinezza, tutti sdegnosamente schivati da chi il fato ha voluto seduttore di molti e sedotto esclusivamente da se stesso, ovvero senza pietà verso gli altri e insieme prigioniero, avvinto dai propri dolorosi lacci. In tenera tam dura superbia forma - in quella bellezza vi era una superbia così ingrata - Narciso dentro di sé già serbava, amara, la ghianda del proprio lacerante tormento: fascino soave, irresistibile, commisto ad altera fierezza. Caravaggio ne dipinse soltanto il volto fanciullesco che contempla, compiaciuto, la sua immagine riflessa. Proprio la
tracotanza gli fu letale: Nemesi non tarderà ad impartire insindacabile vendetta, esaudendo chi, umiliato, la invoca. Eco non era riuscita a trovare quiete, nè la sua triste risonanza lascerà che Narciso sopravviva alla sua superbia. Edi Brancolini ritrae l'indifferenza del giovinetto intento ad ammirare le sue fattezze e la replicazione del corpo di Eco, che, quasi in dissolvimento, propaga la sua ombra, fino a rarefarsi, diventando puro spirito. Eco e Narciso, mai avvicinati da scambievole amore in vita, saranno fatalmente accomunati dalla stessa morte, fortemente voluta da entrambi, per consunzione. È ammirevole la fermezza della ninfa, nel proposito di pagare il prezzo della propria sconfitta. L'irriducibile attualità della mitologia sta nell'extratemporalità e nel legame indissolubile a temi connaturati all'uomo di ogni tempo e di ogni dove. La garanzia della durata dei versi ci è confermata da Orazio: exegi monumentum aëre perennius. Lo stesso accade nella Divina Commedia, dove Dante saprà mescere sapientemente il terreno al soprannaturale partendo dalla leggenda o dal mito, per emulare il suo modello. Dante ed Ovidio scelsero, in tempi e modalità differenti, di trascrivere, con compiuta coscienza, il fluire continuo della vita, nelle sue manifestazioni, evidenti o nascoste che siano. L'ispiratore è chiamato in causa nel XXV Canto dell'Inferno: "Taccia di Cadmo e di Aretusa Ovidio, che se quello in serpente e quella in fonte converte poetando, io non lo 'nvidio". Dante prende le mosse dall'imitatio-aemulatio medievale per una riscrittura degli auctores da cui attinge. Servendosi di una raffinata "arte allusiva", così definita da Giorgio Pasquali in un saggio del 1942, Dante ricorre a reminescenze inconsapevoli, le imitazioni, o volontarie, le allusioni. "Poeta dell'intelligenza", il fiorentino non esita a proclamare la propria vittoria poetica sul sulmonese, consapevole di aver penetrato, nella prigionia del sogno, l'arcano scenario oltremondano, nel baratro dell'oscurità o nella profondità eterea della luce. L'exemplum classico, raggiunto e sublimato, è reinterpretato in forma superiore, carica di quel senso che la verità cristiana impreziosisce e cela. Alighieri si professa "sesto tra cotanto senno": ai suoi maestri è stato concesso di preconizzare il provvidenzialismo divino, ma in chiave ancora pagana. A lui invece è dato sapere il mistero del destino dell'uomo
dopo questa vita. Ovidio, quasi impercettibilmente, sfiora la verità custodita dal cuore umano, Dante è ufficialmente investito di una missione mistica di cui nessuno prima. Ovidio si erge, oscillante, senza sostegno; la poesia di Dante, invece, è pervasa e mirabilmente suggellata dalla fede salvifica. Una metamorfosi è perla di vita, simbolo occulto o conoscibile di un divenire perpetuo e incessante. Una trasfigurazione finalizzata dalla manus Dei, affinché l'ordine cosmico testimoni l'incontrastabile disegno celeste. Dante è perennemente attuale anche perché sa donare voce nuova, inesauribile a versi antichi, rievocati nell'eterno presente di una poesia incorruttibile, aggiungendo senso al senso. Così Piramo e Tisbe, suicidi l'uno per l'altro, ciascuno a insaputa dell'altro, rivivono in una trasfigurazione rinnovata e tornano a congiungersi ogniqualvolta, per amore soltanto, chi ama sceglie la via dell'abnegazione, del sacrificio oblativo, dell'annullamento di se stesso per l'altro. A volte basta un attimo e la sofferenza può impossessarsi dello schema intero di una vita, fino a soverchiarla. Non può esserci ragione di continuare a vivere, se la propria ragione di vita è venuta a mancare. Kierkegaard affermava che "il pericolo può essere così grande che la morte diviene l'unica speranza". Ed in questo caso il rischio era di andare incontro ad un'esistenza privata di quello stesso respiro di cui essa si alimenta. I due giovani innamorati, trafitti dallo stesso pugnale, rivivono instancabilmente nei Romeo e Giulietta di oggi e di sempre, nella gratuità dell'amore che renderà purpureo un altro petalo di gelso. Edi Brancolini immagina l'abbraccio estremo dei due amanti confitti e legati da una linea rossa, che tanto ha di ideale, di metafisico, perché rivela una determinazione "usque adfinem, usque ad mortem" ossia quell'atteggiamento di pertinace volontà che proprio Dante sosteneva. L'acceso cromatismo scatena un'ansia sottile ed ineffabile, che stringe le membra e defluisce con impeto, come una corrente liberata che ex abrupto riemerge. Una metamorfosi labile, illusoria, un miracolo immaginario, in cui sforzarsi di credere, perché necessario alla sopravvivenza di Piramo e Tisbe e alla conservazione dell'amore. L'accostamento delle due storie d'amore ne palesa la somiglianza:
l'uno non è corrisposto, l'altro è pienamente condiviso, ma ambedue si concludono in tragedia. L'uscita di scena dei protagonisti vuole render merito all'idea spirituale dell'amore super amantes, non più intra o extra. La presenza fisica dei personaggi non è necessaria all'amplesso, quando questo è sublime purezza sentimentale. La catarsi del triste epilogo induce a riflettere su quantol'uomo sia capace di nobilitarsi nel silenzio di un gesto che parla di sé, attraversando trionfalmente i secoli. Ovidio aveva decantato un sentimento universale, Dante, consapevole della sua innegabile autenticità, rammenta l'ultimo sguardo di Piramo, rivolto a Tisbe, "in su la morte", dopodiché "'1 gelso diventò vermiglio". Una duos nox perdet amantes - una sola notte manderà a morte due amanti. È un amore che nel miserevole trapasso della morte diventa imperituro, acronico, cristallizzandosi fuori dal tempo, al di là dello spazio. Finché l'amore vivrà, anche Piramo e Tisbe rimarranno vivi. E con loro gli
inestinguibili versi di chi li ha cantati.
Sustine et abstine _
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